Eva Colombo, Tre ritratti della Maestra, capitolo terzo: La vergine
Per tutta la notte avevo invidiato la neve. Nel riflesso della finestra i miei
occhi diventavano sempre più neri e lei sempre più bianca, il mio volto sempre
più stanco e lei sempre più fresca. Contro il vetro freddo della finestra le mie
mani screpolate sanguinavano, i miei occhi incupiti lacrimavano. La neve non
aveva freddo, non era stanca. Rigava il piombo della notte leggera come una
piuma, trasformava in platino il fango della strada. Mi domandavo come un cielo
così nero e pesante potesse lacrimare fiocchi di neve così leggeri, così
candidi. I miei occhi erano neri come il cielo di piombo, pesanti come lui. Ma
le mie lacrime erano nere: nere di kajal, e nere di disillusione. Nello specchio
della mia finestra la neve turbinava ritessendo l’illusione che la vita potesse
essere leggera e candida come lei. L’alba stava cancellando il mio riflesso dal
vetro: sorrisi alla mia cupezza evanescente, sorrisi ad un mondo che si
risvegliava candido e leggero. Quel giorno a Praga il sole non scioglieva la
neve ma la faceva risplendere come platino: su quella neve non lasciavo
impronte, era come se vi danzassi leggera. Perfino il nero dei miei occhi nel
riflesso delle vetrine sembrava ardere con un crepitio allegro, perfino il
ciondolo d’ambra che avevo comprato sembrava risplendere come gli occhi di chi
sa che le lacrime possono essere anche di gioia. Ma col buio il cielo tornò ad
essere di piombo, i miei occhi non avevano il coraggio di guardarlo per paura di
scoprirsi simili a lui. Un’altra notte si avvicinava: un’altra notte in cui il
nero dei miei occhi nel riflesso della finestra sarebbe stato come il nero della
disillusione più atroce. Guardavo la neve di platino sulla strada: così pura,
così inscalfibile…ricominciai ad invidiarla. Lei non sembrava aver paura del
piombo del cielo, la sua adamantina purezza non temeva la notte. Ora su quella
neve non danzavo più, sgattaiolavo in punta di piedi sperando che lei non si
accorgesse che avevo avuto l’impudenza di sfiorare il suo candore con i miei
occhi offuscati da lacrime nere di kajal. Non nevicava ancora, non c’era vento:
tutto era fermo. Eppure una tensione crescente si sprigionava dalle polarità
opposte del cielo di piombo e del suolo di platino, era come se stessero
raccogliendo le forze prima di saltarsi l’un l’altro alla gola. Io non volevo
trovarmici in mezzo: la Galleria Nazionale fu la mia via di scampo. Andai a
sbattere contro La vergine di Klimt, dovetti fermarmi davanti ai suoi occhi
chiusi. Turbinava come uno di quei fiocchi di neve che all’alba nello specchio
della mia finestra avevano ritessuto l’illusione che la vita fosse bella. Le sue
mani non sanguinavano, non pativano il freddo che si prova quando sembra che
tutto sia niente. I suoi occhi non lacrimavano, non pativano la stanchezza che
si prova quando si fissa qualcosa che sta svanendo. Le sue mani erano aperte,
pronte a ricevere tutto anche se questo tutto dovesse rivelarsi niente. I suoi
occhi erano chiusi, pronti ad aprirsi per gioire del proprio riflesso mutevole
in mille specchi cangianti. Quando uscii dalla Galleria Nazionale non nevicava
ancora ma la tensione si era stemperata in un fremito leggero. Il cielo di
piombo ed il suolo di platino si sarebbero presto fusi nel turbinio della neve
ed il nero dei miei occhi nel riflesso della finestra sarebbe stato come il nero
del cielo che porta dentro sé il candore della neve, come il nero della notte
che porta dentro di sé lo splendore del giorno. |
Eva Colombo, Three portraits of the Teacher, third chapter: The virgin
All night long I had envied the snow. In the reflection of the window – pane my
eyes were getting more and more black and the snow more and more white, my face
was getting more and more tired and the snow more and more fresh. Against the
cold window – pane my chapped hands bled, my darkened eyes shed tears. The snow
didn’t feel the cold, she wasn’t tired. Light as a feather she scratched the
lead of the night, lightly she turned the slime of the street into platinum. I
wondered how a sky so dark and heavy could shed snow – flakes so light, so
immaculate white. My eyes were black and heavy as the leaden sky but the tears I
was shedding were black: black because of the kajal, black because of the
disillusion. In the mirror of my window the snow was whirling, she was weaving
again the illusion that life could be light and white as she is. The dawn was
wiping out the reflection of my face from the window – pane: I smiled at my
fading gloom, I smiled at a dawning light and white world. That day in Prague
the sun caused the snow to shine as platinum without melting her: on that snow I
didn’t leave any foot – print: it was as If I were dancing lightly upon her.
Even the black of my eyes in the reflection of the shop – windows seemed to burn
with a cheerful crackling, even the amber pendant which I had bought seemed to
shine as the eyes of a person who knows that tears could be caused by joy as
well. But with the dark the sky became again a leaden sky, my eyes were afraid
of looking at it for fear of revealing themselves similar to it. Another night
was coming: another night during which the black of my eyes in the reflection of
the window – pane would have been as the black of the most atrocious
disillusion. I looked at the platinum – snow on the street: so pure, so
unchangeable…I started again to envy her. She didn’t seem to fear the leaden
sky, her adamantine purity wasn’t scared by the night. Now on that snow I didn’t
dance any more, I sneaked away on tiptoe with the hope that she wouldn’t find
out my impudence: I dared to graze her whiteness with my eyes dim with kajal –
black tears. It wasn’t snowing yet, there wasn’t wind: everything was still. And
yet a growing tension was given off the opposed polarities of the leaden sky and
the platinum ground, it was as if they were collecting all their strength for
jumping at each other’s throat. I thought It was better not to find myself in
the middle: the National Gallery was my way out. I bumped against The virgin
portrayed by Gustav Klimt, I was forced to stop against her shut eyes. She was
whirling just like one of those snow – flakes that at dawn in the mirror of my
window wove again the illusion of a beautiful life. Her hands didn’t bleed, they
didn’t suffer from the cold that I feel when I’ve got the sensation that
everything is actually nothing. Her eyes didn’t shed tears, they didn’t suffer
from the tiredness that I feel when I gaze at something that is fading away. Her
hands were open, ready to receive everything even if this everything could prove
itself to be actually nothing. Her eyes were shut, ready to open for enjoying
the changeable reflection of themselves in thousand changing mirrors. When I
left the National Gallery it wasn’t snowing yet but the tension was diluted into
a light rustle. Soon the leaden sky and the platinum ground would merge in the
whirling of the snow and the black of my eyes in the reflection of the window –
pane would be as the black of the leaden sky which bears the whiteness of the
snow, as the black of the night which bears the shininess of the day. |