Eva Colombo, Tre ritratti della Maestra, capitolo secondo: La Primavera
Ricordo la prima volta che vidi la Primavera di Franz Von Stuck, a Budapest,
molti anni fa. Era una di quelle giornate in cui il cielo era così terso che mi
ci potevo specchiare: avevo un vestito azzurro, le ginocchia abbronzate e la
luce del sole trasformava in un scintillante velo purpureo i miei capelli.
Insomma, era una di quelle giornate in cui una ragazza ventenne avrebbe dovuto
stare bene. Invece non stavo bene: la suola di corda delle mie espadrillas mi
metteva a disagio. Non che mi facesse male, per niente. Ma la rustica ingenuità
di quelle suole produceva un’irritante dissonanza mentre camminavo. Sì, perché
quel giorno mi sembrava di camminare su di un filo, un filo scintillante sospeso
sopra l’ombra. Ogni passo richiedeva una sofisticata precisione che era folle
pretendere dalla grossolanità delle espadrillas. Ad ogni passo avrei voluto
scaraventarle contro lo specchio troppo terso del cielo, che la smettesse di
distrarmi solleticando la mia vanità. Dovevo concentrarmi, non potevo
permettermi di mettere un piede in fallo. Il sole faceva scintillare Il velo
purpureo dei miei capelli così tanto che i miei occhi ne erano abbacinati: le
piante dei piedi avrebbero condotto i miei passi molto meglio dei miei occhi.
Sì, avrei proprio dovuto scaraventare le mie espadrillas contro il cielo. Ma
ovviamente non potevo, ero nel centro di Budapest. Dentro il Museo di Belle arti
il sole mi concesse una tregua: allora vidi con chiarezza che il filo
scintillante su cui traballavo con le mie incongrue espadrillas era creato dal
timore che avevo del giudizio, il giudizio che il ragazzo con cui ero avrebbe
potuto scaraventarmi addosso ad ogni passo. Temevo lo sguardo acuminato e la
voce contundente di quel ragazzo, temevo che il suo giudizio mi spingesse giù
dal filo scintillante della sua ammirazione, nell’ombra. Poi vidi lei, la
Primavera di Franz Von Stuck. Si stagliava contro un cielo nuvoloso che era come
il lenzuolo che ci si tira sulla testa nel disperato tentativo di prolungare la
notte, nel disperato tentativo di continuare a non essere visti. Era nell’
ombra, così bella e così sola. Non sembrava aver bisogno del sole e di un
accompagnatore: i suoi occhi azzurri erano il suo cielo sereno, e lei non aveva
bisogno di specchi per sapere di essere bella. I suoi capelli non abbacinavano i
suoi occhi: erano quel velo d’ombra che spesso è necessario per poter vedere
chiaramente. Le sue mani non cercavano il calore di altre mani ma si facevano
bastare il tocco fresco delle violette: le violette che fioriscono nell’ombra,
che non hanno bisogno dello sguardo altrui per vivere ed essere belle. La
rustica suola di corda delle mie espadrillas si accordava perfettamente al suolo
scuro e fertile che i miei piedi calcavano saldamente mentre contemplavo quel
quadro. Quella era la Primavera: la vita e la bellezza per antonomasia. Eppure
era sola, eppure era nell’ombra. Si può essere vive e belle anche nella
solitudine, anche nell’ombra. Quando lasciai la Primavera di Von Stuck i miei
passi erano quelli di chi non ha paura di cadere. |
Eva Colombo, Three portraits of the Teacher, second chapter:
The Spring
I recall the first time I’ve seen the Spring portrayed by Franz Von Stuck, in
Budapest, many years ago. It was one of those days in which the sky was so clear
that I was able to look at myself in it as if it had been a mirror: I wore a
blue dress, my knees were tanned and the sun’s light turned my hair into a
sparkling purple veil. In a word: it was one of those days in which a twenty –
year - old girl should have to feel at ease. And yet I didn’t feel at ease: the
rope – soles of my espadrillas prevented me from feeling at ease. They didn’t
hurt me, not at all. But the rustic ingenuousness of those soles made an
annoying dissonance while I was walking. Yes, that day I felt as I was walking
on a thread, a sparkling thread suspended upon the shadow. Each step required a
sophisticated precision that it would have been foolish to expect from a pair of
coarse espadrillas. At each step I wished to hurl them at that too much clear
mirror of the sky, at that sky which kept on distracting me by tickling my
vanity. I had to concentrate, I couldn’t allow myself a false step. The sun made
the purple veil of my hair so much sparkling that my eyes were dazzled: bare
feet would have lead my steps far better than my eyes did. Well, I should really
have hurled my espadrillas at the sky that day. But of course I couldn’t, I was
in the heart of Budapest. Inside the Museum of Fine Arts the sun granted me a
truce: then I was able to see clearly that the sparkling thread on which I was
tottering with those pair of incongruous espadrillas was created by the fear I
felt of the judgment, the judgment that the boy with whom I was could have been
able to hurl at me at each step. I feared the sharp glance and the blunt voice
of that boy, I feared that his judgment would push me over the sparkling thread,
down into the shadow. And suddenly I saw her, the Spring portrayed by Franz Von
Stuck. She was silhouetted against a cloudy sky which was as the sheet that you
put on your head in making the desperate attempt to extend the night, in making
the desperate attempt to continue concealing yourself. She was into the shadow,
so beautiful and so alone. It seemed that she wouldn’t feel the need of the sun
and of a companion: her blue eyes were her serene sky, and she wouldn’t feel the
need of mirrors to be aware of her own beauty. Her hair didn’t dazzle her eyes:
her hair was that veil of shadow that is often necessary for being able to see
clearly. Her hands weren’t looking for the warmth of other hands but they were
pleased with the fresh touch of a bunch of violets: the violets that flourish in
the shadow, the violets that don’t feel the need of anyone’s glance to be living
and beautiful. The rustic rope – soles of my espadrillas matched perfectly with
the dark and fertile soil that my feet firmly trod while I was gazing at that
painting. That one was the Spring: one of the most loved symbol of life and
beauty. And yet she was alone, and yet she was into the shadow. It is possible
to be living and beautiful even alone, even into the shadow. When I left the
Spring portrayed by Franz Von Stuck my steps were those of a person who is no
longer scared by the eventuality of falling. |